Ripercorre la sua storia, Sinisa Mihajlovic, sul palco del Festival dello Sport. O meglio, le sue tante storie e tante vite, come a lui stesso piace definirle. Nato due volte, nel 1969 e poi nel 2019, dopo aver sconfitto la leucemia, infatti, nel mezzo racconto, tra foto e aneddoti, un’infanzia di povertà, l’approdo nella squadra dei sogni, la Stella Rossa, il difficile momento della guerra in Jugoslavia, i diversi team in Italia. Tanti i momenti di commozione – «Ho rimparato a piangere», ammette -, ma anche le battute ironiche, frutto di un carattere fumantino e schietto, che strappa sempre un sorriso al pubblico, dimostrando che «non si deve mai smettere di lottare e combattere, qualunque cosa accada», ma nemmeno di scherzare. Se gli si chiede quanto possa valere un giocatore come lui oggi, infatti, risponderà che «non c’è valore, perché non c’è più un calciatore come me».
“La partita della vita”, questo il titolo del libro autobiografico del campione, oggi allenatore, Sinisa Mihajlovic. Ma forse lo si sarebbe dovuto declinare al plurale. Sono davvero tante, infatti, le vite e le vicissitudini che il calciatore serbo ha affrontato nel corso dei suoi 52 anni. Si parte dall’infanzia nell’ex-Jugoslavia di Tito, con la mamma croata, operaia in una fabbrica, e il papà serbo, camionista. «Il fatto che uscivano di casa per lavorare alle 6 del mattino, ha fatto sì che a sei anni fossi già grande – ricorda – uscivo a comprare il pane, badavo a mio fratello di quattro anni più giovane. Oggi sarebbe impensabile, ma so che al tempo non si poteva fare altrimenti».
E’ il periodo, quello, della crescita ma anche del primo pallone: «Mio padre mi regalò un pallone di cuoio comprato dai polacchi e ricordo che lo tenevo come una reliquia, ci mettevo la crema e perché non si rovinasse lo usavo solo su prato. Giocavo in un campo in cui c’era una porta, mi allenavo da solo – prosegue, vagando nella memoria, accompagnato da vecchie foto -. Quando ne ricevetti un secondo, cominciai a giocare anche contro la serranda di casa, per l’infelicità del mio vicino che faceva il turno di notte e che pronosticò: “Se non diventi calciatore tu, nessuno” ».
Una vita fuori e dentro dal campo, che lo porta a giocare giovanissimo, a soli 16 anni, nella Serie C jugoslava e ad essere nominato il miglior giocatore, e poi alla sua squadra del cuore, la Stella Rossa: «Ho fatto i provini e non mi hanno voluto, dopo quattro anni ero il giocatore che pagavano l’equivalente di un milione di euro oggi –continua -. Non si deve mai mollare, nel calcio e nella vita».
Poi ancora, in Italia, l’approdo alla Roma (durato solo due anni), il passaggio alla Sampdoria e poi alla Lazio, e il ritorno, oggi, come allenatore. Eppure, nonostante ammetta di aver spesso provocato gli avversari e attaccato briga, è fuori dal campo che Mihajlovic ha dovuto mostrare davvero i denti: la guerra dei Balcani prima, la leucemia poi.
«La guerra è stata un qualcosa di assurdo, improvviso: per me è stata una guerra in casa, tra parenti croati e serbi, tra persone che fino ad allora erano amiche – racconta ancora -. Improvvisa quanto la leucemia, che fino al controllo precedente, non aveva mostrato traccia nel mio sangue». Una malattia annunciata in conferenza stampa non per pietismo o ricerca di eroismo, ma «perché sono fatto così – conclude -. Volevo essere trasparente, mettere le cose in chiaro: l’essere malato non era una vergogna; quando mi rivedo magro nelle foto non noto debolezza, ma forza. Non si deve mai perdere la voglia di lottare».