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Il Festival dello Sport: Alex Schwazer, la gloria è di chi non si arrende mai

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Tantissima gente per Alex, tantissimi applausi e grande emozione. L’affetto e la stima immutati di un grande pubblico che simbolicamente sembra rappresentare la gloria mancata, la medaglia negata di Rio. 

Onoro il coraggio di questo invito al Festival dello Sport e vi ringrazio per questa straordinaria presenza”.

Così risponde Alex Schwazer alla prima di una serie di domande, che mirano, grazie alla grande professionalità di Franco Arturi, a dipingere un ritratto fedelissimo dei capitoli più importanti della storia travagliatissima di questo protagonista dello sport italiano.

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Partendo da lontano, quasi quarant’anni fa, Alex ebbe la grande fortuna di crescere in una famiglia in cui lo sport era molto importante e con uno zio atleta olimpico nello slittino.

La passione è nata così, praticando tantissimi sport, prima di esprimersi come marciatore. Cresciuto in un paesino di otto case, la corsa e la bicicletta erano scelte obbligate per potersi muovere, almeno nella vicina Vipiteno. Il correre era una cosa del tutto naturale, non un castigo.

“La soddisfazione di sentirsi esausto” è una citazione dello stesso Alex Schwazer tratta dalla sua autobiografia “Dopo il traguardo”, un lavoro di introspezione di una persona molto profonda e molto determinata:  “Quando mi metto in testa una cosa non arretro di un millimetro. 

Questo è sempre stato un mio limite – spiega Schwazer – nella vita non c’è solo il bianco o il nero, devi essere capace di vedere anche il grigio. Per questa mia mentalità, ho raggiunto grandissimi traguardi ma ho fatto anche grandissimi sbagli. Non c’è niente di più gravoso delle aspettative che hanno gli altri su di te che non coincidono con le tue. 

Dopo Pechino – racconta il campione –  ho sofferto parecchio perché mi veniva richiesto di migliorare e fare di più. Mi sentivo stanco, non in forma, l’interesse mediatico su di me si era allontanato, non riuscivo a giustificare né il mio stato fisico ma nemmeno il comportamento di chi si allontana perché non sei più al top”.

In effetti, dopo il trionfo di Pechino, un’”ubriacatura” di impegni gli fa perdere il filo: “Mi sentivo arrivato ma non me lo sono mai concesso davvero, nel senso che non mi sono mai goduto quella vittoria, preoccupato di cercarne subito altre. Questo stress mi ha portato a non trovare più il senso in quello che stavo facendo e a concepire la fatica non più come un piacere ma come una sofferenza. Arrivare a questo punto è stato il mio più grande errore”.

In verità, Alex al tempo era giovanissimo e sicuramente non abbastanza maturo da gestire da solo una pressione di questo calibro. Nessuno lo ha aiutato, anzi non supportandolo, lo hanno aiutato a sbagliare.

Arriva così il capitolo buio del doping “fai da te”, il viaggio in Turchia, l’Epo, le auto somministrazioni: “A livello razionale non c’è spiegazione al mio comportamento – si racconta Schwazer – vivevo una situazione estrema di confusione mentale e malessere interiore e sebbene nei momenti di lucidità capissi cosa stessi facendo, ero troppo determinato nel mio obiettivo di non voler più soffrire. Quando sono stato scoperto prima di Londra  – continua Alex – ho provato un mix di vergogna e sollievo. Il circo di menzogne era finito, ma pensando alla mia carriera, alla fatica e agli investimenti fatti, mi chiedevo perché dovesse finire così. Con il tempo, il sollievo si è affievolito ed i momenti tristi hanno preso il sopravvento“.

Quel giorno Alex si è giocato la carriera e ha pagato un prezzo altissimo. Sotto il colpo di una mannaia di quattro anni di squalifica, sembrava impossibile ma invece successe: Schwazer ci riprova: “Tutti pensano che la marcia sia un calvario invece per me è una sinfonia con un finale grandioso. Quando sono diventato professionista marciavo male, non avendo un allenatore specialista per la marcia. Mentre faticavo, dovevo pensare a sistemare le braccia, le gambe, i dettagli, per migliorare la tecnica. Così ho capito la bellezza della marcia”.

Per questo ritorno che doveva essere il più trasparente e “garantito” possibile, Schwazer si mette nelle mani di Alessandro Donati, il guru dell’anti doping che peraltro aveva contribuito, con una segnalazione, al procedimento nei suoi confronti. “Fare fatica era di nuovo diventato una cosa bella, era tempo di tornare a marciare. Avevo imparato che non c’è migliore cosa di vincere e avere il riconoscimento degli altri della tua vittoria”.

Con Donati è un sodalizio umano più che sportivo, un rapporto mutato nel tempo, passato dalla diffidenza, alla fiducia e all’amicizia. Ben presto fu chiaro all’ambiente, che stava tornando un atleta rigenerato e più forte di prima, il possibile favorito alla 50 km di Rio.

Ed è questo punto che arriva la più pesante delle mazzate, quella della positività, un vero e proprio shock per Schwazer. “All’inizio e per molto tempo non avevo la benché minima percezione che si trattasse di un complotto. Ero convintissimo che fosse stato un errore, poi ho iniziato a sospettare che qualcuno potesse aver avuto l’intenzione di nuocermi”. 

Oggi il marciatore non se la prende con le istituzioni che si sono accanite su di lui e che lo hanno distrutto sul piano sportivo e ferito sul piano umano: “La cosa che mi fa male davvero è non poter più fare l’atleta”.

La positività di Londra ha compromesso tantissimo, anche se non tutto, della carriera di Schwazer, ma quello che è successo dopo è stato ancora più difficile per questo campione perché “è possibile ricostruire sui propri sbagli ma quando non ci sono colpe, è impossibile trovarci qualcosa di buono da imparare.

Per fortuna c’è stata la mia famiglia – afferma Alex – sono diventato un altro da quando è nata la mia prima figlia, quando capisci che sei responsabile di un altro essere umano e non puoi piangerti addosso ma devi pensare al bene degli altri prima del tuo. Questo ti fa vedere te stesso e le cose in una maniera completamente diversa. Senza la mia famiglia avrei continuato a vedermi solo come atleta nel mio fallimento, mentre come uomo riesco ancora a fare qualcosa di buono”.

Un grande futuro attende Alex Schwazer “uomo”, mentre le vicende dell’Alex Schwazer “atleta” portano alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo alla quale ha fatto ricorso: “Un eventuale risultato a mio favore potrebbe essere importante per l’intero il sistema sportivo”.

La gloria è davvero di chi non si arrende mai.

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